Per un umanesimo condiviso. Lettere e Scienze per il futuro del nostro Paese
Per un umanesimo condiviso. Lettere e Scienze per il futuro del nostro Paese
Maurizio Bettini è direttore del Centro di Antropologia del mondo antico dell’Università di Siena e autore del libro A che servono i Greci e i Romani? (Einaudi 2017), che ha riaperto un dibattito mai sopito e quanto mai attuale sulla crisi dell’insegnamento delle materie umanistiche e di quelle classiche in particolare. La messa in questione della didattica del latino e del greco, il progressivo calo delle iscrizioni al liceo classico (anche se al momento in lieve ripresa), ne sono una prova. D’altra parte, sempre più insistentemente ci si chiede se l’Italia abbia davvero bisogno di laureati in discipline umanistiche, mentre si riducono gli investimenti in questo settore della formazione universitaria.
Sempre più spesso ai docenti di storia, di filosofia – e soprattutto di antichistica – viene chiesto: «A che cosa serve?» Dietro questa domanda agisce una rete di metafore economiche usate per rappresentare la sfera della cultura («giacimenti culturali», «offerta formativa», «spendibilità dei saperi», «crediti», «debiti» e così via). A fronte di tanta pervasività di immagini tratte dal mercato sta il fatto che la storia testimonia una visione ben diversa della creazione intellettuale. La civiltà infatti è prima di tutto una questione di pazienza: e anche la nostra si è sviluppata proprio perché alla creazione culturale non si è chiesto immediatamente «a che cosa servisse».
Il teorema riassuntivo di Bettini è duro: “Se non leggeremo più l’Eneide perderemo contatto non solo con il mondo romano, ma anche con ciò che è venuto dopo. Perdere Virgilio significa perdere anche Dante, e così via. Un cambiamento radicale di enciclopedia culturale somiglia infatti a un cambiamento di alfabeto”.
Ma gli insegnamenti scientifici che non mostrano una ricaduta pratica immediata non corrono forse lo stesso rischio? Davvero il confine tra scienziati e umanisti è ancora così netto? E l’impoverimento della dimensione critica e storica, e degli strumenti essenziali per accedervi, non condizionerà la maniera stessa di intendere l’universitas culturale?
Forse è il momento di cominciare a sottrarsi al pensiero unico imposto dall’economia e, per proteggere i beni simbolici, elaborare più efficaci strategie nell’insegnamento sia nelle scuole che nell’università.